Gianluca Benamati | Il Decreto “Dignità” , le delocalizzaioni e le occasioni mancate
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Il Decreto “Dignità” , le delocalizzaioni e le occasioni mancate

L’intero pacchetto di norme sul lavoro e sulle delocalizzazioni del Decreto Dignità si basa su una filosofia punitiva che si traduce nella sola penalizzazione per chi investe. Il nobile scopo di prevenire eventuali comportamenti opportunistici,per chi sposta la produzione in altri paesi, con le norme come poste in essere nel decreto in concreto può dare luogo alla più semplice delle scelte: non investire, o quanto meno, non investire in Italia.

L’approccio punitivo che è simbolicamente e mediaticamente attraente per una parte della maggioranza di governo risponde ad una visione anti impresa e anti-industriale basata su una prevenzione quasi ideologica nei confronti dell’economia di mercato. Le conseguenze di tale approccio rischiano in concreto di essere profondamente dannose, anche per la totale assenza di qualunque misura volta a sostenere e potenziare gli strumenti e le politiche di investimento messe in atto in questi anni per favorire gli investimenti in Italia e il rientro delle produzioni ed il cosiddetto “back reshoring”. Misure come il piano Impresa 4.0, il piano “made in Italy”, il Fondo per la Reindustrializzazione, solo per citarne alcuni, vanno nel senso di accompagnare un fenomeno di ritorno già in atto.

Al contrario il primo aspetto che risalta agli occhi leggendo le norme contenute nel decreto dignità è l’assoluta mancanza di chiarezza nella definizione delle condizioni e dei presupposti per l’applicazione delle misure di recesso dai benefici e sanzionatorie. È facile immaginare come da tale equivocità, non potranno che sorgere contenziosi a non finire. Si consideri, quale esempio, il tema della delocalizzazione di una “parte dell’attività” e della chiara individuazione di tale parte e del fatto che tale valutazione viene rimessa a soggetti diversi fra loro a secondo del beneficio in oggetto. Parallelamente poiché la definizione degli aiuti di stato erogati alle imprese per gli investimenti si riferisce a tutte le fattispecie (contributi, finanziamenti agevolati, sistema delle garanzie pubbliche) ed i benefici cessano, e le sanzioni scattano, quando vi sono variazioni dell’”attività economica interessata”, perimetro questo indefinito e l’unica certezza anche qui sono i potenziali rischi per le aziende. Le aziende italiane a carattere internazionale, inoltre, saranno quelle più esposte agli errori ed alle imprecisioni di questa norma, non ultima quella della mobilità dei beni oggetto di benefici all’interno del perimento aziendale.

Concludendo mi pare di poter dire che il semplice e condivisibile principio di colpire comportamenti truffaldini o scorretti ha generato un intervento che, così come è, tenderà ad irrigidire e rendere meno attraente il sistema Italia per gli investimenti. L’impostazione generale è sbagliata: la penalizzazione da sola non risolve, ma anzi aggrava i temi dello sviluppo e dell’occupazione. La via maestra dovrebbe rimanere, invece, quella di continuare sulla via della semplificazione burocratica, dello snellimento dei procedimenti giudiziari, del miglioramento delle infrastrutture, della riduzione dei costi (es. energia elettrica) e delle misure di sostegno alla ricerca, all’innovazione, alla formazione ed alla conoscenza ma anche in questo la filosofia anti-industriale di cui sopra lascia poche speranze.

Questo intervento è stato pubblicato su Democratica.

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